Mostra di Guy de Jong a Milano
Guy De Jong nasce a Bruxelles, in Belgio il 25 marzo del 1949. Sotto l`influenza del padre, anche lui artista, segue un corso alla Royal Accademy Of Fine Arts dove vince il primo premio per l`eccellente pittura e disegno. Nell`arco della sua carriera espone un po’ in tutto il mondo e attualmente è riconosciuto da molti collezionisti come Alan King, California – Graindorge, Belgio – Kishka, Israele – Carini, Italia.
E` interessato ad ogni tipologia di arte espressiva, dal disegno alla scultura.
Vive in una splendida casa sul Lago di Como dove continua a lavorare ai suoi molteplici progetti.
La mostra sarà visibile gratuitamente fino al 9 aprile 2013
tutti i giorni durante l’orario di apertura del teatro al pubblico
“La sua pittura è caratterizzata da una coinvolgente energia, rapidità, dolore, erotismo magico, da angoli durissimi che a volte si aprono alla morbidezza, a volte si chiudono spigolosamente. Volti aguzzi, molto verticali, travolti da qualche demone o angelo inferiore che non tace mai, talvolta androgini poi di colpo flessuosi, sognatori, continuamente sdoppiati o raddoppiati, intrecciati e incastrati tra loro senza riposo. Figure umane contratte, occhi mani bocche senza volume, sospese nella dimensione di una superficie lineare che scorre di getto sul bianco, soprattutto nei disegni a china. Il ritorno di uno sguardo chiaro in tutti i volti palesi o nascosti, uno sguardo che ha la dolcezza, la trasparenza, l’ostinazione crudele di certi sguardi dell’infanzia.
Il bianconero è grafica sinuosa, precisa nel produrre effetti di scompostezza perfettamente organizzata. I pastelli e gli oli grondano colore da tutti i pori: anche loro rifiutano le densità dell’impasto, la massa e il volume, in favore di una materia sezionata, uno strato sottile, qualcosa di aereo e beffardo che predilige il blu cobalto, il giallo e il rosso con i loro toni più euforici e le loro asprezze. A volte questi colori espliciti sono raggelati sullo sfondo quando l’essere umano non c’è, il che succede raramente.
Guy de Jong aggredisce l’idea di figura umana senza dissolverla, evocando primitivissimi, pizzicotti picassiani e modiglianeschi, qualche ambiguità profumata alla Klimt e qualche angolosità alla Schiele, i colori di Utrillo e Van Gogh, certi impennamenti matissiani nell’aria e improvvisi ritmi fiabeschi alla Chagall. L’ossessione della linea pura domina su tutto come un ago che s’ingrossa o si restringe velocemente, attenua gli urli e le smorfie dei volti, cerca e ottiene una pausa gentile della memoria in quegli occhi fin troppo aperti. L’amore per la linea permette soluzione giocose, piccoli trompe l’oeil, divertimenti esili e panciuti, spesso con effetti di vortice. Interrompe l’affanno della combinazioni troppo dense sul piano cromatico, distende i colori e gli angoli, martella una vocazione incisoria costante.
A Guy interessano tutte le possibili tecniche espressive: lavora su tutti i tipi di carta e di tela, su rame, su legno, su specchio, modella vasi, scolpisce, è attratto da tutte le superfici scrivibili. C’è sempre in questa pittura incisoria un bozzolo narrativo: una situazione mentale, un caso fortuito, un’illustrazione a tema, una creatura presa per il collo perché gridi o smetta di gridare. Una strana quiete si apre la strada ogni tanto in mezzo a poche linee intrecciate: l’impronta di un sentimento molto forte che sa stare sottinteso; la speranza di un tempo buono, il tempo segreto della mente, si adagia nelle curve dello spazio.
Ci sono nervi molto accavallati tra loro che guardati una seconda volta si allungano come quando la tensione trova sbocco e indulgenza. La durata di queste linee-figure non è omogenea per chi guarda. I profili efebici disegnati da Guy tra piccoli e grandi triangoli incassati tra loro, le figure spezzate, le colate fluide di colore mescolate ad una stilizzazione formale caparbia tipica dell’incisore, fanno durare l’emozione brevi attimi duri oppure la prolungano nella grazia del segno grafico. A volte strizzano l’occhio alla piacevolezza malinconica. Chi conosce Guy e lo cerca nei suoi lavori (com’è inevitabile), sente soprattutto l’ansia di attraversare il tempo come spazio aperto, un bisogno di raccontarsi molto immediato, la necessità di dialogare con gli altri dipingendo davanti a loro, semplicemente. Nella persona e nelle tele di Guy c’è l’impossibilità di distinte le sensazioni e le forme, come in tutti coloro che mantengono finché vivono lo stupore intuitivo dei bambini e lo trasformano in vitalismo. Solitudine espansiva.
In ogni dipinto di Guy c’è la passione in agguato. La pittura come esperienza amorosa in presa diretta. La voglia di ricominciare da capo ogni giorno. Chi passa al bar Caffè Teatro di Pavia (di fronte al Teatro Fraschini) è invitato senza neanche saperlo a trasformare le molte cose di Guy (tele, chine, vasi, incisioni) in un senso felice per la sua giornata.
Felice anche quando l’occhio incontra nodi di dolore e li guarda vivere davanti a sé. Se la mano di Guy li rende visibili, i dolori e le paure diventano percezioni esplosive che invitano a vivere.”
Prof.ssa Filosofia Università di Pavia
Flavia Ravazzoli